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EDITORIALE

Per una volta non voglio entrare nel merito, ma guardo alla forma. Parlo di politica, ma non di programmi, di proposte o di fatti, ma di linguaggio. Lo faccio consapevole che il linguaggio è il veicolo del pensiero.

La realtà politica oggi è fatta di tantissime parole, molte più di un tempo. Gli appassionati comizi sono stati sostituiti da cinguettii su Twitter o post in Facebook: brevi ed immediati. La velocità con cui arrivano sui nostri telefonini, sui tablet o sui pc è paragonabile a quella con cui la nostra memoria archivia.

Oggi il nostro politico ideale ha meno di 50 anni, preferisce vestire casual, usa i mezzi pubblici o ecologici, comunica prima sui social network e poi con le note ufficiali di palazzo, frequenta gli studi televisivi, non è di destra né di sinistra.

È il ragazzo (o la ragazza) della porta accanto, che sa accattivarsi il suo pubblico (una volta avremmo parlato di elettorato). C’è chi alterna il politichese a simpatiche battute.

È come se tendessimo a guardare i politici piuttosto che ad ascoltarli, senza accorgerci che fanno tutto ciò che fanno sapendo di essere guardati più che ascoltati. E quando parlano dicono tante parole, a volte senza dire nulla.

Sappiamo che siamo in recessione. E allora, come fare ad uscire dalla crisi? Ci aspetteremmo proposte concrete, ma la concretezza spaventa perché implica un impegno serio ed è misurabile. Allora si preferisce spararle grosse, puntare in alto, molto in alto, impressionare e catturare emotivamente, perché intanto che ci si emoziona il cervello può riposare…

La concretezza è alla portata di tutti e, se si fallisse, significherebbe ammettere di essere degli incapaci. Allora è meglio puntare in alto, in modo da giustificarsi in anticipo con l’ammissione di non essere dei super eroi qualora non si raggiungesse l’obiettivo.

Ma in fondo, a noi non interessa che il ragazzo della porta accanto diventi un super eroe. Ci piacerebbe, forse, ma da tempo non crediamo alle favole…

m.r.z.